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PINK FLOYD-A NICE PAIR 2 LP harvest LP 50203/04 1973 IT

79,99

1 disponibili

Categoria:

Descrizione

PREMESSA: LA SUPERIORITA’ DELLA MUSICA SU VINILE E’ ANCOR OGGI SANCITA, NOTORIA ED EVIDENTE. NON TANTO DA UN PUNTO DI VISTA DI RESA, QUALITA’ E PULIZIA DEL SUONO, TANTOMENO DA QUELLO DEL RIMPIANTO RETROSPETTIVO E NOSTALGICO , MA SOPRATTUTTO DA QUELLO PIU’ PALPABILE ED INOPPUGNABILE DELL’ ESSENZA, DELL’ ANIMA E DELLA SUBLIMAZIONE CREATIVA. IL DISCO IN VINILE HA PULSAZIONE ARTISTICA, PASSIONE ARMONICA E SPLENDORE GRAFICO , E’ PIACEVOLE DA OSSERVARE E DA TENERE IN MANO, RISPLENDE, PROFUMA E VIBRA DI VITA, DI EMOZIONE E  DI SENSIBILITA’. E’ TUTTO QUELLO CHE NON E’ E NON POTRA’ MAI ESSERE IL CD, CHE AL CONTRARIO E’ SOLO UN OGGETTO MERAMENTE COMMERCIALE, POVERO, ARIDO, CINICO, STERILE ED ORWELLIANO,  UNA DEGENERAZIONE INDUSTRIALE SCHIZOFRENICA E NECROFILA, LA DESOLANTE SOLUZIONE FINALE DELL’ AVIDITA’ DEL MERCATO E DELL’ ARROGANZA DEI DISCOGRAFICI .

PINK FLOYD
a nice pair
 the piper at the gates of dawn /  a saucerful of secrets

Disco Doppio 2 LP 33 giri , 1971,  harvest / emi , 3C 154-50203/04 , italia , second pressing

OTTIME
CONDIZIONI, vinyl ex++/NM , cover ex++

Set di 2 lp uscito nel 1973 che accorpora e ripropone le stampe italiane di The Piper at the Gates of Dawn e A Saucerful of Secrets , i due primi lavori del gruppo

The Piper at the Gates of Dawn (“Il pifferaio alle soglie dell’alba”) è il primo album dei Pink Floyd, pubblicato il 5 agosto 1967 per l’etichetta EMI.

L’album è stato registrato nei famosi Abbey Road Studios (mentre i Beatles stavano registrando Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band) e prodotto da Norman Smith. La foto di copertina è di Vic Singh e il retro è disegnato da Syd Barrett. I brani sono tutti di Barrett, eccetto Take Up Thy Stethoscope and Walk composta da Roger Waters ed Interstellar Overdrive e Pow R. Toc H. a firma di tutti e quattro i membri. Nell’edizione americana, intitolata semplicemente Pink Floyd , la lista dei brani era differente da quella inglese, in quanto mancavano Astronomy Domine, Flaming e Bike, ma era presente See Emily Play, brano altrimenti mai pubblicato su un disco ufficiale (eccetto le raccolte).

Sicuramente uno dei grandi dischi della storia del rock (la rivista Rolling Stone
lo ha piazzato al 347° posto nella classifica dei 500 migliori album di
sempre), l’album ha lo stesso titolo del settimo capitolo del libro Il vento fra i salici (The Wind in the Willows) di Kenneth Grahame, che a sua volta fa riferimento al dio Pan della mitologia greca. Il brano The Gnome è stato ispirato invece dal libro di John Tolkien Il Signore degli Anelli: sembra infatti che si parli del viaggio di Frodo. Il titolo e parte del testo di Chapter 24 sono presi, manco a dirlo, dal capitolo 24 di uno dei libri preferiti di Barrett, I Ching.

È un connubio tra musica e turbamenti onirici provocati dallo stato
trascendentale, accompagnati da testi che richiamano le fiabe e le
ninnenanne inglesi, elemento tipico della produzione barrettiana.
Grazie a queste ispirazioni, all’acido e l’aiuto del resto del gruppo
(di cui allora era il leader), il genio bizzarro di Barrett si è
scatenato al massimo, producendo ciò che è la summa del suo
inconfondibile stile musicale (che ha poi portato avanti coi progetti
solistici).

Brani 

Astronomy Domine
La traccia di apertura, “Astronomy domine” è il resoconto di un viaggio
stellare intrapreso da Barrett attraverso l’uso dell’LSD (quasi un
novello Dan Dare,
da lui citato nella canzone, eroe di fumetti inglesi). Il basso
pulsante e continuo rappresenta la connessione radio con la terra,
mentre la chitarra, insieme a un canto maestoso e solenne, sembrano
vagare in un panorama cosmico oscuro e tenebroso. Il tappeto stellare
tessuto dalle tastiere di Wright dà solidità al tutto. Completa il
pezzo l’incessante batteria di Mason, che enfatizza le parti più
drammatiche. Il brano ha una sequenza di accordi (Mi/Mibemolle/Sol/La)
molto inusuale.

Astronomy Domine

Lime and limpid green, A second scene, A fight between the blue You
once knew. Floating down, the sound resounds Around the icy waters
underground Jupiter and Saturn Oberon Miranda and Titania Neptune Titan
Stars can frighten… Blinding signs flap flicker flicker flicker Blam
pow pow Stairway scare Dan Dare who’s there… Lime and limpid green
The sound surrounds the icy waters under Lime and limpid green The
sound surrounds the icy waters underground

Lucifer Sam
Scandita da un riff semplice e martellante ed accompagnato da tastiere
che sembrano rievocare un’atmosfera orientale la canzone parla di un
gatto siamese dai comportamenti inquietanti ed inspiegabili (Syd
Barrett si ispirò al suo gatto di casa). Questa canzone è segnalata nel
sito (non ufficiale) del Centro Culturale San Giorgio (che parla di
messaggi subliminali e satanismo nel mondo del rock) come canzone
satanica, senza però alcuna ragione: nonostante il titolo, non contiene
nè messaggi subliminali, nè qualunque altro riferimento al diavolo.

Lucifer Sam Lucifer Sam Siam cat Always sitting by your side Always
by your side That cat’s something I can’t explain Jennifer Gentle
you’re a witch You’re the left side He’s the right side oh no That
cat’s something I can’t explain Lucifer go to sea Be a hip cat,Be a
ship’s cat Somewhere anywhere That cat’s something I can’t explain
Night prowling sifting sand Padding around on the ground He’ll be found
When you’re around That cat’s something I can’t explain

Matilda Mother
Nel terzo brano Barret si cimenta nel suo ruolo di geniale pifferaio e
menestrello portandoci nel mondo di una favola che si interrompe e poi
riprende, quasi l’incitamento di un bambino affinché la madre non
smetta di raccontargli la favola che tutto fa risplendere.La solenne
atmosfera creata durante il racconto è interrotta da un malinconico
“Mother, tell me more”.

Matilda Mother Here was a king Who ruled the land His majesty was in
command With silver eyes the scarlet eagle Showered silver on the
people Oh Mother tell me more Why’d you have to leave me there Hanging
in my infant air, waiting You only have to read the lines of Scribbly
black and everything shines Across the stream with wooden shoes Bells
to tell the King the news A thousand misty riders Climb up higher once
upon a time Wondering and dreaming The words have different meanings
Yes they did… For all the time spent in that room The doll’s house
darkness old perfume And fairy stories held me high up On clouds of
sunlight floating by Oh Mother tell me more Tell me more…

Flaming
Flaming è una canzone dal testo piuttosto allucinato(solitario tra le
nubi blu,sdraiato su un piumino yippie, non ti toccherò eppure
potrei,nuoto per il cielo stellato, viaggio per telefono). Le liriche
del brano descrivono le senzazioni provate sotto l’uso di LSD,
opportunamente evocate dalla musica.

Flaming torna Lone in the Clouds all blue Lying on an eiderdown,
yippee You can’t see me but I can you Lazing in the foggy dew Sitting
on a unicorn no fear You can’t hear me but I can you Watching
buttercups cup the light Sleeping on a dandelion too much I won’t touch
you but then I might Streaming through the starlit skies Travelling by
telephone Hey ho here we go Ever so high Alone in the clouds all blue
Lying on an eiderdown, yippee You can’t see me but I can you

Pow R. Toch H.
Assieme ad Interstellar Overdrive
è la canzone più estrema dell’album. Completamente strumentale, grazie
ai suoi giri di basso e alle percussioni ci proietta in una’atmosfera
piuttosto cupa e, a parte le bizzarre urla di Barrett e Waters, il
brano è un crescendo di psichedelia che poi si esaurisce
nell’esplosione finale di percussioni.

Pow R. Toc (Strumentale)

Take up thy stetoscope and walk
Il solo frammento di Piper composto da Roger Waters.
Si assiste ad arrangiamenti sofisticatissimi e puramente lisergici
uniti a quella sottile critica sociale (qui ancora abbozzata) che poi
sarà una delle caratteristiche dello stile di Waters (e che influenzerà
enormemente la musica dei Pink Floyd da The Dark Side of the Moon in poi).

Take Up Thy Stethoscope and Walk Doctor,doctor I’m in bed Doctor
Doctor Aching head Doctor Doctor gold is lead Doctor Doctor choke on
bread Doctor Doctor underfed Doctor Doctor gold is lead Doctor Doctor
Jesus bled Doctor Doctor pain is red Doctor Doctor dark doom Gruel
ghoul greasy spoon Used spoon June gloom Music seems to help the pain
Seems to motivate the brain Doctor kindly tell your wife That I’m alive
Flowers thrive Realise Realise Realise

Interstellar Overdrive
Sicuramente il brano più famoso di tutto l’album, Interstellar Overdrive
è la cronaca di un viaggio umano nell’universo, portandoci negli angoli
più remoti e bui del cosmo e si sviluppa nei suoi undici minuti
seguendo una sola regola: almeno uno strumento deve mantenere il ritmo
e sopra questo ritmo, interpretato ora da uno, ora da un altro
strumento, si sviluppa una session acidissima. Questo brano è ricordato
anche per il grande impatto live. I Pink Floyd lo suonavano ogni sera
all’UFO. Le versioni live erano lunghe oltre venti minuti e quasi del
tutto improvvisate, mentre quella sull’album è molto più corta e
sintetizzata, in modo da poter reggere ascolti ripetuti. Si viene
introdotti in un incredibile viaggio spaziale che si fa sempre più
inquietante fino alla conclusione del brano, scandita dal riff iniziale
e poi da rumori meccanici.

Interstellar Overdrive

(Strumentale)

The Gnome
Di ispirazione Tolkieniana, The Gnome è
una curiosa e piacevole ballata acustica che narra di un individuo del
piccolo popolo (chiamato Grimble Gromble), della sua vita quotidiana e
di un viaggio che deve intraprendere.

The Gnome I want to tell You a story ‘Bout a little Man if I can A
gnome named Grimble Gromble And little gnomes stay in their homes
Eating, sleeping, drinking their wine He wore a scarlet tunic A
blue-green hood, it looked quite good He had a big adventure Amidst the
grass, fresh air at last Wining, dining, biding his time… And then
one day Hooray, another way for gnomes to say Ooh my… Look at the
sky, look at the river Isn’t it good? Look at the sky, look at the
river Isn’t it good? Winding, finding places to go And then one day
Hooray, another way for gnomes to say Ooh my Ooh my…

Chapter 24
Come già detto, il brano è ispirato all’I-Ching, conferendo all’intero disco un sottile misticismo.

Chapter 24 All movement Is accomplished In six stages And the
seventh brings return The seven is the number of the young light It
forms when darkness is increased by one Change return success Going and
coming without error Action brings good fortune Sunset The time is with
the month of winter solstice When the change is due to come Thunder in
the Earth, the course of Heaven Things cannot be destroyed once and for
all Change return success Going and coming without error Action brings
good fortune Sunset Sunrise All movement is accomplished in six stages
And the seventh brings return The seven is the number of the young
light It forms when darkness is increased by one Change return success
Going and coming without error Action brings good fortune Sunset Sunrise

The Scarecrow
In questo brano semplicissimo, Barrett descrive con vena fantastica ed infantile uno spaventapasseri.

The Scarecrow

The black and green scarecrow As everyone knows Stood with a bird on
his hat And straw everywhere He didn’t care…. He stood in a field
where barley grows. His head did no thinking his arms didn’t move
Except when the wind cut up rough And mice ran around on the ground He
stood in a field where barley grows The black and green scarecrow is
sadder than me But now he’s resigned to his fate ‘Cause life’s not
unkind He doesn’t mind He stood in a field where barley grows.

Bike
Bike è un po’ il riassunto di tutto il disco (non a caso è posto
alla fine), offrendo una panoramica generale sia dei temi che delle
sonorità stesse degli altri brani. Assai enigmatico il finale, sviluppo
degli ultimi versi del testo.

Bike I’ve got a bike, You can ride it if you like It’s got a basket,
a bell that rings And things to make it look good I’d give it to you if
I could, but I borrowed it You’re the kind of girl that fits in with my
world I’ll give you anything, everything If you want things I’ve got a
cloak it’s a bit of a joke There’s a tear up the front it’s red and
black I’ve had it for months If you think it could look good Then I
guess it should You’re the kind of girl that fits in with my world I’ll
give you anything, everything If you want things I know a mouse and he
hasn’t got a house I don’t know why I call him Gerald He’s getting
rather old but he’s a good mouse You’re the kind of girl that fits in
with my world I’ll give you anything, everything If you want things
I’ve got a clan of gingerbread men Here a man, there a man, lots of
gingerbread men Take a couple if you wish, they’re on the dish You’re
the kind of girl that fits in with my world I’ll give you anything,
everything If you want things I know a room of musical tunes Some
rhyme, some ching, most of them are Clockwork Let’s go into the other
room and make them work

http://www.nikao.ws/wp-content/uploads/2007/11/pinkfloyd.jpg

A Saucerful of Secrets è il secondo album dei Pink Floyd. La nascita dell’album coincide con il declino dello stato mentale di Syd Barrett, indiscusso leader della band e chitarra solista fino all’ingresso di David Gilmour
nei Pink Floyd. Questo è l’ultimo lavoro dei Pink Floyd a cui Barrett
prende parte prima di essere allontanato definitivamente dal gruppo. È
proprio in questo periodo che Barrett comincia ad accusare gli effetti
collaterali dell’LSD sommati ai già ereditari problemi di schizofrenia.
In sua presenza, infatti, le registrazioni risultano lunghe e
difficoltose e diviene impossibile per la band sostenere un tale peso.
I soli contributi di Barrett in quest’album sono la chitarra di Remember a Day (in un primo momento intitolata Sunshine), inizialmente pensata per The Piper at the Gates of Dawn, Set the Controls for the Heart of the Sun e Jugband Blues, ultima traccia dell’album, da lui scritta e cantata.

A Saucerful of Secrets fu pubblicato il 29 giugno 1968 in Inghilterra e il 27 luglio 1968 negli U.S.A., venne registrato tra l’agosto 1967 ed il maggio 1968 agli EMI Studios di Abbey Road e ai Sound Techniques Studios di Chelsea a Londra, ma missato interamente agli Abbey Road. La produzione dell’album fu affidata a Norman Smith. La copertina e le foto sono dell’Hipgnosis di Storm Thorgerson
che realizzò molte delle copertine dei Pink Floyd; è formata da un
collage di 13 immagini tra cui figurano alcuni frammenti di fumetti
della Marvel Comics, l’immagine di un alchimista, immagini di ampolle e bottiglie, una ruota zodiacale, il sole,
alcuni pianeti e una piccola foto del gruppo sulle rive di un fiume
fuori Londra. Sulla copertina si può leggere anche la scritta “y d
pinkfloyd p” e resta il dubbio sul reale significato delle lettere
iniziali, infatti secondo alcuni sarebbe la semplice ripetizione di “p
i n k f l o y d”, mentre secondo altri sarebbe (s) y d pinkfloyd
p(inkfloyd), ovvero un omaggio a Syd Barrett che aveva lasciato definitivamente il gruppo nel febbraio 1968.
Con questo album i Pink Floyd danno una svolta alla loro musica, e,
incidentalmente, tolgono l’articolo “The” dal nome Pink Floyd.

  • Interprete: Pink Floyd
  • Etichetta:  Harvest / Emi italiana
  • Catalogo: 3 C154 – 50203 / 50204
  • Matrici: 50203 – A /  50203 – B / 50204 – A / 50204 – B
  • Data di pubblicazione: 1973
  • Data matrici :  22-4-71 I / 22-4-71 I / 12-5-71 I / 12-5-71 I

                                                              

  • Supporto:vinile 33 giri
  • Tipo audio: stereo
  • Dimensioni: 30 cm.
  • Facciate: 4
  • Gatefold / copertina apribile , yellow-green Harvest label., white paper inner sleeves 

Release Information: Second issue.
Cover: Nine pictures. Gargling monk picture is in the upper right corner.

pf102

Tracce

The Piper at the Gates of Dawn

All songs written by Syd Barrett, except where noted.

Side one

  1. Astronomy Domine” – 4:12
  2. Lucifer Sam” – 3:07
  3. Matilda Mother” – 3:08
  4. Flaming” – 2:46
  5. Pow R. Toc H.” (Syd Barrett, Roger Waters, Richard Wright, Nick Mason) – 4:26
  6. Take Up Thy Stethoscope and Walk” (Roger Waters) – 3:05

Side two

  1. Interstellar Overdrive” (Syd Barrett, Roger Waters, Richard Wright, Nick Mason) – 9:41
  2. The Gnome” – 2:13
  3. Chapter 24” – 3:42
  4. Scarecrow” – 2:11
  5. Bike” – 3:21

Personnel

A Saucerful of Secrets

Side one

  1. Let There Be More Light” (Roger Waters) – 5:38
  2. Remember a Day” (Richard Wright) – 4:33
  3. Set the Controls for the Heart of the Sun” (Waters) – 5:28
  4. Corporal Clegg” (Waters) – 4:13

Side two

  1. A Saucerful of Secrets” (Waters / Wright / David Gilmour / Nick Mason) – 11:52
  2. See-Saw” (Wright) – 4:36
  3. Jugband Blues” (Syd Barrett) – 3:00

Personnel

Additional personnel

  • Norman Smith – drums and backing vocals on “Remember a Day”
  • 8 members of the Salvation Army (The International Staff Band)
    – Ray Bowes (cornet), Terry Camsey (cornet), Mac Carter (trombone), Les
    Condon (E♭ bass), Maurice Cooper (Euphonium), Ian Hankey (trombone),
    George Whittingham (B♭ bass), and one other in “Jugband Blues”.

Pink Floyd

The Piper at the Gates of Dawn

The title of Pink Floyd’s debut album is taken from a chapter in Syd Barrett‘s favorite children’s book, The Wind in the Willows, and the lyrical imagery of The Piper at the Gates of Dawn is indeed full of colorful, childlike, distinctly British whimsy, albeit filtered through the perceptive lens of LSD. Barrett‘s
catchy, melodic acid pop songs are balanced with longer, more
experimental pieces showcasing the group’s instrumental freak-outs,
often using themes of space travel as metaphors for hallucinogenic
experiences — “Astronomy Domine” is a poppier number in this vein, but
tracks like “Interstellar Overdrive” are some of the earliest forays
into what has been tagged space rock. But even though Barrett‘s
lyrics and melodies are mostly playful and humorous, the band’s music
doesn’t always bear out those sentiments — in addition to Rick Wright‘s
eerie organ work, dissonance, chromaticism, weird noises, and vocal
sound effects are all employed at various instances, giving the
impression of chaos and confusion lurking beneath the bright surface. The Piper at the Gates of Dawn
successfully captures both sides of psychedelic experimentation — the
pleasures of expanding one’s mind and perception, and an underlying
threat of mental disorder and even lunacy; this duality makes Piper all the more compelling in light of Barrett‘s subsequent breakdown, and ranks it as one of the best psychedelic albums of all time.

Pink Floyd

A Saucerful of Secrets

A transitional album on which the band moved from Syd Barrett‘s relatively concise and vivid songs to spacy, ethereal material with lengthy instrumental passages. Barrett‘s
influence is still felt (he actually did manage to contribute one
track, the jovial “Jugband Blues”), and much of the material retains a
gentle, fairy-tale ambience. “Remember a Day” and “See Saw” are
highlights; on “Set the Controls for the Heart of the Sun,” “Let There
Be More Light,” and the lengthy instrumental title track, the band
begin to map out the dark and repetitive pulses that would characterize
their next few records.

pf110

Pink Floyd is the premier space rock band. Since the mid-’60s, their
music relentlessly tinkered with electronics and all manner of special
effects to push pop formats to their outer limits. At the same time
they wrestled with lyrical themes and concepts of such massive scale
that their music has taken on almost classical, operatic quality, in
both sound and words. Despite their astral image, the group was brought
down to earth in the 1980s by decidedly mundane power struggles over
leadership and, ultimately, ownership of the band’s very name. After
that time, they were little more than a dinosaur act, capable of
filling stadiums and topping the charts, but offering little more than
a spectacular recreation of their most successful formulas. Their
latter-day staleness cannot disguise the fact that, for the first
decade or so of their existence, they were one of the most innovative
groups around, in concert and (especially) in the studio.

While Pink Floyd are mostly known for their grandiose concept albums of
the 1970s, they started as a very different sort of psychedelic band.
Soon after they first began playing together in the mid-’60s, they fell
firmly under the leadership of lead guitarist Syd Barrett, the gifted genius who would write and sing most of their early material. The Cambridge native shared the stage with Roger Waters (bass), Rick Wright (keyboards), and Nick Mason (drums). The name Pink Floyd, seemingly so far-out, was actually derived from the first names of two ancient bluesmen (Pink Anderson and Floyd Council).
And at first, Pink Floyd were much more conventional than the act into
which they would evolve, concentrating on the rock and R&B material
that were so common to the repertoires of mid-’60s British bands.

Pink Floyd quickly began to experiment, however, stretching out songs
with wild instrumental freak-out passages incorporating feedback;
electronic screeches; and unusual, eerie sounds created by loud
amplification, reverb, and such tricks as sliding ball bearings up and
down guitar strings. In 1966, they began to pick up a following in the
London underground; on-stage, they began to incorporate light shows to
add to the psychedelic effect. Most importantly, Syd Barrett
began to compose pop-psychedelic gems that combined unusual psychedelic
arrangements (particularly in the haunting guitar and celestial organ
licks) with catchy melodies and incisive lyrics that viewed the world
with a sense of poetic, childlike wonder.

The group landed a recording contract with EMI in early 1967 and made
the Top 20 with a brilliant debut single, “Arnold Layne,” a
sympathetic, comic vignette about a transvestite. The follow-up, the
kaleidoscopic “See Emily Play,” made the Top Ten. The debut album, The Piper at the Gates of Dawn, also released in 1967, may have been the greatest British psychedelic album other than Sgt. Pepper’s. Dominated almost wholly by Barrett‘s
songs, the album was a charming fun house of driving, mysterious
rockers (“Lucifer Sam”); odd character sketches (“The Gnome”);
childhood flashbacks (“Bike,” “Matilda Mother”); and freakier pieces
with lengthy instrumental passages (“Astronomy Domine,” “Interstellar
Overdrive,” “Pow R Toch”) that mapped out their fascination with space
travel. The record was not only like no other at the time; it was like
no other that Pink Floyd would make, colored as it was by a vision that
was far more humorous, pop-friendly, and lighthearted than those of
their subsequent epics.

The reason Pink Floyd never made a similar album was that Piper was the only one to be recorded under Barrett‘s leadership. Around mid-1967, the prodigy began showing increasingly alarming signs of mental instability. Barrett
would go catatonic on-stage, playing music that had little to do with
the material, or not playing at all. An American tour had to be cut
short when he was barely able to function at all, let alone play the
pop star game. Dependent upon Barrett
for most of their vision and material, the rest of the group was
nevertheless finding him impossible to work with, live or in the studio.

Around the beginning of 1968, guitarist Dave Gilmour, a friend of the band who was also from Cambridge, was brought in as a fifth member. The idea was that Gilmour would enable the Floyd to continue as a live outfit; Barrett would still be able to write and contribute to the records. That couldn’t work either, and within a few months Barrett
was out of the group. Pink Floyd’s management, looking at the wreckage
of a band that was now without its lead guitarist, lead singer, and
primary songwriter, decided to abandon the group and manage Barrett as a solo act.

Such calamities would have proven insurmountable for 99 out of 100
bands in similar predicaments. Incredibly, Pink Floyd would regroup and
not only maintain their popularity, but eventually become even more
successful. It was early in the game yet, after all; the first album
had made the British Top Ten, but the group was still virtually unknown
in America, where the loss of Syd Barrett meant nothing to the media. Gilmour
was an excellent guitarist, and the band proved capable of writing
enough original material to generate further ambitious albums, Waters eventually emerging as the dominant composer. The 1968 follow-up to Piper at the Gates of Dawn, A Saucerful of Secrets, made the British Top Ten, using Barrett‘s
vision as an obvious blueprint, but taking a more formal, somber, and
quasi-classical tone, especially in the long instrumental parts. Barrett,
for his part, would go on to make a couple of interesting solo records
before his mental problems instigated a retreat into oblivion.

Over the next four years, Pink Floyd would continue to polish their
brand of experimental rock, which married psychedelia with ever-grander
arrangements on a Wagnerian
operatic scale. Hidden underneath the pulsing, reverberant organs and
guitars and insistently restated themes were subtle blues and pop
influences that kept the material accessible to a wide audience.
Abandoning the singles market, they concentrated on album-length works,
and built a huge following in the progressive rock underground with
constant touring in both Europe and North America. While LPs like Ummagumma (divided into live recordings and experimental outings by each member of the band), Atom Heart Mother (a collaboration with composer Ron Geesin), and More… (a film soundtrack) were erratic, each contained some extremely effective music.

By the early ’70s, Syd Barrett
was a fading or nonexistent memory for most of Pink Floyd’s fans,
although the group, one could argue, never did match the brilliance of
that somewhat anomalous 1967 debut. Meddle
(1971) sharpened the band’s sprawling epics into something more
accessible, and polished the science fiction ambience that the group
had been exploring ever since 1968. Nothing, however, prepared Pink
Floyd or their audience for the massive mainstream success of their
1973 album, Dark Side of the Moon,
which made their brand of cosmic rock even more approachable with
state-of-the-art production; more focused songwriting; an army of
well-time stereophonic sound effects; and touches of saxophone and
soulful female backup vocals.

Dark Side of the Moon
finally broke Pink Floyd as superstars in the United States, where it
made number one. More astonishingly, it made them one of the
biggest-selling acts of all time. Dark Side of the Moon
spent an incomprehensible 741 weeks on the Billboard album chart.
Additionally, the primarily instrumental textures of the songs helped
make Dark Side of the Moon
easily translatable on an international level, and the record became
(and still is) one of the most popular rock albums worldwide.

It was also an extremely hard act to follow, although the follow-up, Wish You Were Here (1975), also made number one, highlighted by a tribute of sorts to the long-departed Barrett, “Shine On You Crazy Diamond.” Dark Side of the Moon had been dominated by lyrical themes of insecurity, fear, and the cold sterility of modern life; Wish You Were Here and Animals (1977) developed these morose themes even more explicitly. By this time Waters was taking a firm hand over Pink Floyd’s lyrical and musical vision, which was consolidated by The Wall (1979).

The bleak, overambitious double concept album concerned itself with the
material and emotional walls modern humans build around themselves for
survival. The Wall
was a huge success (even by Pink Floyd’s standards), in part because
the music was losing some of its heavy-duty electronic textures in
favor of more approachable pop elements. Although Pink Floyd had rarely
even released singles since the late ’60s, one of the tracks, “Another
Brick in the Wall,” became a transatlantic number one. The band had
been launching increasingly elaborate stage shows throughout the ’70s,
but the touring production of The Wall, featuring a construction of an actual wall during the band’s performance, was the most excessive yet.

In the 1980s, the group began to unravel. Each of the four had done some side and solo projects in the past; more troublingly, Waters was asserting control of the band’s musical and lyrical identity. That wouldn’t have been such a problem had The Final Cut
(1983) been such an unimpressive effort, with little of the electronic
innovation so typical of their previous work. Shortly afterward, the
band split up — for a while. In 1986, Waters was suing Gilmour and Mason to dissolve the group’s partnership (Wright had lost full membership status entirely); Waters lost, leaving a Roger-less Pink Floyd to get a Top Five album with Momentary Lapse of Reason
in 1987. In an irony that was nothing less than cosmic, about 20 years
after Pink Floyd shed their original leader to resume their career with
great commercial success, they would do the same again to his
successor. Waters released ambitious solo albums to nothing more than moderate sales and attention, while he watched his former colleagues (with Wright back in tow) rescale the charts.

Pink Floyd still had a huge fan base, but there’s little that’s noteworthy about their post-Waters
output. They knew their formula, could execute it on a grand scale, and
could count on millions of customers — many of them unborn when Dark Side of the Moon came out, and unaware that Syd Barrett was ever a member — to buy their records and see their sporadic tours. The Division Bell,
their first studio album in seven years, topped the charts in 1994
without making any impact on the current rock scene, except in a
marketing sense. Ditto for the live Pulse album, recorded during a typically elaborately staged 1994 tour, which included a concert version of The Dark Side of the Moon in its entirety. Waters‘ solo career sputtered along, highlighted by a solo recreation of The Wall, performed at the site of the former Berlin Wall in 1990, and released as an album. Syd Barrett continued to be completely removed from the public eye except as a sort of archetype for the fallen genius.

PINK FLOYD

The Piper At The Gates Of Dawn

Londra, 1967: l’estate hippy e psichedelica di San Francisco è appena
trascorsa e il suo messaggio si è diffuso in tutto il modo. I confini
della percezione mentale si allargano ormai con l’Lsd e i maggiori
esponenti di questo nuovo tipo di fare musica sono i Doors (con lo storico album omonimo), i Jefferson Airplane (con “Surrealistic pillow”) e i Velvet Underground (che hanno già debuttato insieme a Nico). Gli inglesi Pink Floyd
fanno il loro esordio sulle scena psichedelica mondiale con “The piper
at the gates of dawn”, manifesto agghiacciante di musica totalmente
fuori dagli schemi, e istantanea particolareggiata dell’epoca in cui
uscì.

Nel 1967 il gruppo presentava una formazione a quartetto, con Syd Barrett
alla chitarra, alla voce, e a comporre, Roger Waters al basso, Richard
Wright alle tastiere, e Nick Mason alla batteria. Uscito dopo un paio
di singoli che fecero scalpore per il loro grande impatto sonoro,
l’album raccoglie 11 canzoni perfette, ognuna con caratteristiche
diverse. E che si tratti di un’opera ispirata lo rivela già la scelta
della copertina, una sovrapposizione miscelata dei volti dei musicisti,
con tinte fortemente allucinate. La opening track, “Astronomy domine” è
in pratica il resoconto di un viaggio stellare intrapreso da Barrett
attraverso l’uso dell’LSD (si narra addirittura che per orientarsi
abbia portato con sè un manuale di astronomia, per le allusioni nel
testo a tale Dan Dare, autore di opuscoli del genere). Il basso
pulsante e continuo rappresenta la connessione radio con la terra,
mentre la chitarra onnipresente, insieme a un canto maestoso e solenne,
sembrano errare in un panorama cosmico oscuro e tenebroso. Il tappeto
stellare tessuto dalle tastiere dà solidità al tutto. Completa il pezzo
il drumming forsennato di Mason, che enfatizza le parti più
drammatiche.

Già da questo storico brano si evince la
filosofia dei Pink Floyd dell’epoca: nel momento in cui il gruppo
(basso, tastiera e batteria) creava linee melodiche solide e compatte,
Barrett era libero di viaggiare con la propria chitarra verso luoghi
conosciuti solo nella sua mente. Si creava così una separazione di
ruoli tra il leader, libero di viaggiare con la propria immaginazione,
e il resto della band.

La seconda traccia, “Lucifer Sam”, è
una sorta di proto-hard rock, con un riff incalzante, accompagnato da
tastiere che sembrano richiamare una atmosfera orientale. Il testo
narra di un magico gatto (Lucifer) che ha qualcosa di inspiegabile.
L’atmosfera, che ricorda la meditazione indiana, è riportata però sopra
un riffing ossessivo e incalzante.Nel terzo brano, “Matilda mother”,
Barrett si cimenta nel ruolo di menestrello (anticipando in pratica i
racconti fiabeschi del progressive e del rock romantico), portandoci
nel mondo di una favola, che si interrompe e poi riprende. La solenne
atmosfera creata durante il racconto è interrotta da un malinconico
“Mother, tell me more”.

“Flaming”, la traccia successiva, è
un collage di suoni e rumori inseriti in un’atmosfera sognante e
cosmica. Assolutamente strampalata e dal testo chiaramente allucinato
(solo nelle nuvole/viaggio per telefono, non posso toccarti, ma dopo
potrei), è la fotografia di un viaggio mentale. La successiva “Pow R.
Toc. H” consiste in un semplice giro di basso ripetuto fino
all’infinito, che crea una atmosfera scurissima. Le percussioni
enfatizzano i punti più oscuri, e sottolineano l’avvento degli urli
finali. Voci di indiani, cori finti, aperture solenni di organo che
però non portano da nessuna parte. Solo immagini buttate sopra
un’atmosfera cupa e densa.

La traccia successiva (“Take up
thy stetoscope and walk”), firmata Roger Waters, è un esperimento
basato sulla ripetizione ossessiva delle parole “doctor doctor”, ed è
forse la testimonianza del ritorno da un viaggio, o probabilmente lo
stato di una mente malata e oppressa. Tuttavia nel finale si risolve
riversandosi in una melodia che guarda al beat, con cori sovrapposti. A
seguire, il capolavoro del disco, e anche l’apice della produzione di
Barrett: “Interstellar overdrive”. E’ la cronaca di un viaggio umano
nell’universo. Introdotta da un riff da film dell’orrore, si sviluppa
nei suoi undici minuti seguendo una sola regola: almeno uno strumento
deve mantenere il ritmo. E sopra questo ritmo, interpretato ora da uno,
ora da un altro strumento, si sviluppa una jam session acidissima,
fatta di astronavi che sfrecciano, di asteroidi che si scontrano, di
alieni e alienazioni, di muri spaziali, di tempeste stellari, di quiete
cosmica, di paradisi intravisti e umanamente irraggiungibili. Barrett è
completamente in viaggio. La sua mente disegna scene inquietanti e
paurose, o ancora si immerge in liquidi universi che sfuggono alle
possibilità umane. Questo brano è ricordato anche per il grande impatto
live. I Pink Floyd lo suonavano ogni sera all’ UFO, (dove dividevano
gli incassi anche con i Soft Machine del grande Robert Wyatt),
con una tecnica molto particolare, detta del “light show”, che
consisteva nella proiezione diretta sul gruppo di diapositive
allucinate, sulle quali era posto dell’inchiostro. A contatto con il
calore della lampadina, l’inchiostro si scioglieva e creava effetti
visivi di grande impatto. Con il cambio di ritmo mutavano anche le
immagini, in un tripudio di arte visionaria. La band poi introdusse
anche un’altra innovazione nel live: quella del suono quadrifonico:
collegando gli strumenti ad amplificatori posti ai quattro lati del
locale, suoni diversi provenivano da punti distanti fra loro, dando
così l’impressione che la musica avvolgesse il pubblico.

Dopo il viaggio stellare si scivola verso la parte finale del disco,
che ci regala ancora una favoletta (“The gnome”), presa direttamente
dal “signore degli anelli”, una solenne preghiera indiana (“Chapter
24”), dal testo oscuro e metaforico, e uno straniante brano senza
melodia (che anticipa molte composizioni del rock minimalista dei ’70):
“The scarecrow”, basato su due nacchere e su un canto allucinato. Il
disco si chiude con una gag comica: bike, dove emerge l’anima freak di
Barrett. Il testo allude a una ragazza, e si chiude con un tentativo di
sconfinare nell’avanguardia, con campanelli pazzi che suonano da tutte
le parti, quasi a dire: “Sveglia, il viaggio è finito, è tempo di
tornare sulla terra”.


Pink Floyd - Saucerful Of Secrets

“A Saucerful of Secrets” è un
disco di importanza cruciale nella discografia
dei Pink Floyd.
Non perchè segni particolari scarti rispetto
all’esordio di “Piper at the Gates of Dawn”,
ma perché fotografa il momento preciso
in cui la guida del gruppo passò dalle
mani di Syd Barrett a quelle di Roger Waters.

E’ il 1968 e Barrett inizia a mostrare i segni
di quell’instabilità che lo porterà
presto ad allontanarsi dalla musica e a ritirarsi
dalle scene. Il gruppo lo sostituisce con David
Gilmour, che entra nei Pink Floyd e non li lascerà
più. Tuttavia Barrett resta fondamentale
anche in qui. E compare di persona,seppure in
una sola occasione. Accade proprio quando il disco
sta per chiudersi e il Nostro intona le sghembe
e fragili linee melodiche di “Jugband Blues”,
accompagnato solo da una chitarra acustica prima
che giunga una banda nel finale. Un brano separato
dagli altri, così disarmante rispetto alla
solidità del disco, simile invece ai lavori
solisti che usciranno di lì a poco, “The
Madcap Laughs” e “Barrett“.

Prima di “Jugband Blues”, “A Saucerful
Of Secrets” è in ogni caso un disco
che conferma i Pink Floyd come uno dei gruppi
fondamentali della psichedelia inglese, sorretto
dal carisma di Waters e dal talento di Rick Wright.
Lo è nei momenti più onirici, nei
veri e propri viaggi nello spazio che sono “Set
the Controls For the Heart of the Sun” e
“Let There Be More Light”, oltreché
nel lunghissimo brano che dà il titolo
al disco, una serie di rumori dilatati che crescono
sino a sfociare in un bellissimo crescendo di
organo.

Ma è un lavoro notevole anche quando regala
canzoni più classiche e strutturate. Si
prendano l’incantevole nostalgia di “Remember
a Day”, costruita per lo più al piano,
o la liquida “See-Saw”, entrambe firmate
da Wright. E’ per tutte queste ragioni che pur
non possedendo il fascino e la sorpresa dell’esordio
del gruppo, nè l’innocente follia dei lavori
di Barrett, “A Saucerful of Secrets”
resta tuttavia un disco fondamentale nella storia
del gruppo inglese.



http://home.att.net/~chuckayoub/pink_floyd/pink_floyd_biography.jpg

I
Pink Floyd sono i pionieri della psichedelia e uno dei massimi
complessi rock di sempre. Nel corso di una carriera lunghissima (in cui
si distinguono tre fasi, corrispondenti ad altrettante formazioni)
hanno spostato i limiti del pop e del rock sposando l’elettronica e
approfondendo la ricerca sonora in una serie di album giudicati pietre
miliari della musica popolare del Novecento. Altra loro peculiarità è
quella di aver prodotto mastodontiche rappresentazioni multimediali
della propria musica attraverso spettacoli in cui la componente visiva
è parte integrante di quella sonora.

La lunga storia della
formazione inglese ha inizio a metà degli anni Sessanta, quando tre
studenti di architettura e un estroso studente di pittura gettano le
basi per entrare a pieno titolo nella leggenda del rock, partendo dai
club della Londraundergrounde lisergica per arrivare, non senza radicali cambiamenti di stile e di formazione, al successo planetario.

La band nasce dall’incontro dello studente di pittura Roger Keith Barrett
(per tutti Syd, nato il 6/1/46 a Cambridge) con Roger Waters (Great
Bookham – 9/9/44), studente di architettura e chitarrista di una
formazione dal nome cangiante (Sigma 6, T-Set, Meggadeaths, Abdabs)
nella quale suonavano altri due aspiranti architetti: Nick Mason
(Birmingham – 21/1/45) e Rick Wright (Londra – 28/7/45) oltre al
bassista Clive Metcalf e ai cantanti Keith Noble e Juliette Gale. Nel
’65, dopo lo scioglimento del gruppo, Waters (al basso), Barrett
(chitarra), Wright (tastiere) e Mason (batteria) decidono di formare
una band (per brevissimo tempo ne farà parte anche il chitarrista Bob
Close): il nome, scelto da Barrett, è Pink Floyd e deriva dai nomi di
battesimo di due bluesmen americani, Pink Anderson e Floyd Council.

Nel ’66 arriva il momento delle prime esibizioni nei club della Londra underground,
con un repertorio che comincia ad assumere una propria identità grazie
alle prime composizioni strumentali di Barrett. E’ in questo periodo
che i Pink Floyd conoscono quelli che diventeranno i loro manager:
Andrew King e Peter Jenner.

Nella “Swingin’ London”, i Pink
Floyd riescono a farsi notare come una delle band più originali e
imprevedibili, in virtù soprattutto delle esibizioni all’Ufo Club, un
locale in cui il gruppo sperimenta i suoi primi coinvolgentilight-show,
tentando di coinvolgere il pubblico con proiezione di immagini,
diapositive e l’impiego massiccio di un efficace impianto luci.

A
cavallo tra il ’66 e il ’67, i Pink Floyd entrano in sala d’incisione,
per i primi demo, con risultati poco incoraggianti: bisognerà attendere
ancora qualche mese, infatti, per la pubblicazione del primo singolo
del complesso, “Arnold Layne/ Candy and a Currant Bun” (prodotto da Joe
Boyd).

Il successo arriva immediato ed è seguito a breve
distanza da un secondo singolo-hit, “See Emily Play/ The Scarecrow”: la
band partecipa per ben tre volte consecutive a “Top of the Pops” ed è
finalmente pronta per il primo album, pubblicato nell’estate del ’67: The Piper at the Gates Of Dawn.
Il disco, prodotto da Norman Smith, si impone subito grazie al sound
particolare e assolutamente innovativo e a testi singolari, divisi tra
atmosfere oniriche e spaziali (“Astronomy Domine”, “Interstellar
Overdrive”) e brevi filastrocche per le quali Barrett attinge al mondo
delle fiabe (“The Gnome”, “The Scarecrow”, “Lucifer Sam”).

“Astronomy
Domine” è il resoconto di un viaggio stellare intrapreso da Barrett
attraverso l’uso dell’Lsd: il basso pulsante rappresenta la connessione
radio con la terra, mentre la chitarra onnipresente, insieme a un canto
maestoso e solenne, sembrano errare in un panorama cosmico oscuro, con
il drumming forsennato di Mason, a enfatizzare le parti più
drammatiche.Il capolavoro del disco, e forse anche l’apice della
produzione di Barrett, è però: “Interstellar Overdrive”. E’ la cronaca
di un viaggio umano nell’universo. Introdotta da un riff da film
dell’orrore, si sviluppa nei suoi undici minuti seguendo una sola
regola: almeno uno strumento deve mantenere il ritmo. E sopra questo
ritmo, si sviluppa una jam session acidissima, fatta di astronavi che
sfrecciano, di asteroidi che si scontrano, di alieni e alienazioni, di
muri spaziali, di tempeste stellari, di quiete cosmica, di paradisi
irraggiungibili. Ma Barrett è anche un maestro nel raccontare
filastrocche, come “Lucifer Sam”, sorta di proto-hard rock, con un riff
incalzante, accompagnato da tastiere che sembrano richiamare una
atmosfera orientale, “The Scarecrow”, basata su due nacchere e su un
canto allucinato, e la gag comica in stile “freak” di “Bike”. I lunghi
viaggi “acidi” e le atmosfere scanzonate, uniti a una sonorità
articolata, nata dall’unione di influenze diverse ma sempre del tutto
unica e peculiare, permettono al disco di essere tutt’oggi uno dei
lavori universalmente più amati del quartetto. In seguito a questo
successo, ormai lanciati verso una folgorante carriera, i quattro
partono per gli Stati Uniti in tour, ma è proprio qui che conosceranno
le prime difficoltà.

Barrett, infatti, comincia a manifestare
i sintomi della schizofrenia (causata molto probabilmente
dall’assunzione sistematica di Lsd), assentandosi sempre di più dalla
vita del complesso: gli spettacoli dal vivo si fanno insostenibili,
così come la pressione che il mondo della musica esercita su quella che
è ritenuta, a ragione, la mente creativa del gruppo.

La band
opta allora per una soluzione di compromesso, con l’ingaggio del
chitarrista David Gilmour (già amico d’infanzia di Barrett e Waters,
nato a Cambridge il 6/3/1946), il quale, secondo i progetti del
management, deve sopperire alle mancanze di Barrett (che comunque resta
nelle vesti di autore) nei concerti. I singoli “Apples & Oranges” e
“It Would Be So Nice” non replicano i successi precedenti e gli
atteggiamenti bizzarri e imprevedibili di Barrett cominciano a minare
l’attività del gruppo.Le precarie condizioni psichiche portano il
leader a un impenetrabile autoisolamento e a un progressivo
allontanamento dalle scene musicali, non prima della difficoltosa
produzione di The Madcap Laughs (gennaio 1970) e Barrett (novembre 1970), due eccellenti album solisti realizzati con l’aiuto di Gilmour e Wright.

Il
nuovo manager dei Pink Floyd diventa Steve O’Rourke. E i quattro
superstiti non si perdono d’animo e rientrano in studio per incidere il
loro secondo album: A Saucerful of Secrets.

Figlio
del periodo di instabilità, il lavoro non lesina buone intuizioni, in
particolare con la title-track che, come avrà modo di affermare Waters
qualche anno più tardi, sembra la trasposizione musicale della parabola
artistica dei Pink Floyd, con un inizio governato dall’istinto e un
finale stupendo per ordine e limpidezza. Sono quasi dodici minuti di
audace avanguardia psichedelica, che alternano terrore e misticismo. E’
proprio il bassista a firmare gli altri brani trainanti del disco come
l’iniziale raga tribal-psichedelico di “Let There Be More Light”, la
misteriosa e affascinante “Set the Controls for the Heart of the Sun”,
capolavoro della musica cosmica, e “Corporal Clegg”, che mantiene un
più saldo legame con lo stile dell’album d’esordio. C’è spazio anche
per due composizioni firmate da Rick Wright (“Remember a Day” e “See
Saw”), che per tutta la durata dell’album appare notevolmente ispirato,
contribuendo non poco al sound onirico che lo pervade. Il disco si
completa con una composizione di Barrett, “Jugband Blues”, un piccolo
bozzetto delirante, in cui il chitarrista si dimostra perfettamente
conscio del suo stato di isolamento mentale, declamando versi che,
letti a posteriori, sembrano voler rispondere in anticipo all’album che
i quattro gli dedicheranno qualche anno dopo.

Complessivamente, comunque,A Saucerful of Secrets appare
segnato soprattutto dal chitarrismo di David Gilmour, che riporta la
musica del gruppo verso territori più ancorati alla tradizione
rock-blues.

Il 69 è un anno frenetico, dal punto di vista
artistico, per i Pink Floyd: il complesso si cimenta infatti nello
sviluppo di due suite da proporre negli spettacoli dal vivo come “The
Man” e “The Journey”, e tenta il primo vero approccio con l’arte
cinematografica scrivendo la colonna sonora per il film di Barbet
Schroeder, More, a cui si aggiungono quelle per
“Zabriskie Point” di Michelangelo Antonioni e “Music From The Body” di
Roy Battersby, quest’ultima a nome del solo Waters.

More,
in particolare, è forse uno dei dischi più sottovalutati della
produzione floydiana, straordinariamente coeso e delicato, con brani
che fanno da scenario alle atmosfere del film uniti da una disarmante
semplicità melodica. Da ricordare, fra tutti le composizioni, le brevi
e acustiche “Cirrus Minor”, “Green Is the Colour” e “Cymbaline”, oltre
alla minisuite “Main Theme”, che sembra ricordare la parte centrale
della precedente “A Saucerful of Secrets”.

Alla fine del 1969, i quattro pubblicano anche il monumentale Ummagumma,
destinato a essere annoverato tra i loro capolavori. L’album si compone
di due parti: una registrata dal vivo, in cui il gruppo ripercorre i
primi successi, e una in studio, formata dal contributo che i quattro
musicisti hanno fornito da “solisti”, con composizioni sperimentali
incentrate sui rispettivi strumenti. E’ Wright ad aprire il disco con
“Sysyphus”, una suite strumentale che mescola musica classica e
avanguardia. Waters si cimenta in due brani: l’acustica “Grantchester
Meadows” (tra chitarre folk ed effetti di uccellini elettronici) e
“Several Species of Small Furry Animals Gathered Together in a Cave and
Grooving with a Pict”, composizione prettamente noise che simula i
rumori degli animali nel bosco; mentre Gilmour ci regala un saggio di
bravura tecnica alla chitarra con la sua più meditata “The Narrow Way”.
Il disco è concluso da Mason con un ambizioso pezzo strumentale (“The
Grand Vizier’s Garden Party”), guidato, ovviamente, dalle percussioni.
Nel disco dal vivo, brillano le versioni espanse di alcuni loro cavalli
di battaglia (da “Astronomy Domine” a “Set The Controls For The Heart
Of The Sun”) e una delirante versione di quella “Careful With That Axe
Eugene” che accompagna l’indimenticabile la scena finale di “Zabriskie
Point”. L’anno successivo vede i Pink Floyd cimentarsi con una nuova
lunga composizione strumentale al quale verrà dato il curioso nome di
lavorazione di “The Amazing Pudding”. Negli intenti del gruppo il nuovo
lungo pezzo dovrà stupire il pubblico, con effetti orchestrali senza
precedenti nella loro produzione. Per le parti orchestrali viene
chiamato il musicista scozzese Ron Geesin, al quale viene affidato il
compito di arricchire la versione “nuda” della suite (base ritmica e
linee base di tastiere e chitarra), costruita dai quattro e già
presentata al pubblico in occasione di alcuni concerti.

Il
risultato è eclatante: la suite, che si dipana attraverso straordinari
“dialoghi” tra musica sinfonica (imponente è l’uso degli ottoni e del
coro) e rock, prende il nome diAtom Heart Mother
(dalla notizia di cronaca di una signora incinta tenuta in vita da uno
stimolatore cardiaco atomico) e diventa la title-track del nuovo album,
del quale andrà a occupare l’intera prima facciata.

I
movimenti più suggestivi della suite sono “Breast Milky”,
caratterizzato dal celeberrimo dialogo tra l’organo arpeggiato e il
violoncello, sul quale si inserisce infine la chitarra di Gilmour, e
“Funky Dung”, con basso e organo che lavorano in contrappunto e Gilmour
alle prese con uno dei migliori soli chitarristici della sua carriera,
prima dell’avvento del coro e dell’organo di Wright. La chiusura della
suite è affidata a “Mind Your Throats Please” (caratteristica
variazione floydiana di stampo rumoristico-psichedelico) e a
“Remergence”, in cui riemergono i temi prima dell’overtoure e poi del
duetto violoncello e organo. Il finale è imponente, con una chitarra
sempre incisiva e con l’orchestra e i cori che scandiscono il crescendo
musicale.

La seconda facciata si apre con la delicata “If ”
di Waters (un semplice arpeggio di chitarra, la voce soffusa che
sussurra parole intrise di malinconica poesia, una chitarra sognante
nei brevi intermezzi musicali) e prosegue con “Summer ’68”, notevole
pezzo di Wright (anche qui si nota l’uso dei fiati), l’onirica “Fat Old
Sun” di Gilmour (canto caldo e suadente, chitarra sempre composta ma
inesorabile) e si conclude con l’esperimento di “Alan’s Psychedelic
Breakfast”, costituita da tre diversi momenti strumentali (il primo
centrato sull’organo, il secondo sulle chitarre, il terzo più variegato
e vicino allo stile dei primi Genesis)
con la registrazione di una colazione all’inglese in sottofondo. Nata
con l’ambizione di rappresentare la giornata di un uomo comune e
ispirata a un roadie già immortalato nel retrocopertina di “Ummagumma”), la suite di Alan è a tutti gli effetti un esperimento poco riuscito.

Primo lavoro autoprodotto dai Pink Floyd e considerato il loro disco “progressive”, Atom Heart Mother va ricordato anche per la “storica” copertina, raffigurante una mucca al pascolo.

Il
successo di una musica così complessa si traduce ben presto in
un’effettiva difficoltà di messa in scena, che richiede al complesso
l’elaborazione di nuovo materiale da suonare in tutti gli angoli del
mondo. Nasce così Meddle (1971), un album in cui i
Pink Floyd più che rinnegare l’amore verso le lunghe suite (in questo
caso la seconda facciata è occupata dalla splendida “Echoes”), danno un
taglio alle divagazioni sinfoniche e si orientano verso sonorità più
rock, agevolmente riproponibili nei concerti. Memorabile è l’iniziale
“One of These Days”, pezzo strumentale incentrato sul basso di Waters,
amplificato sperimentalmente con un eco Binson, e impreziosito anche
dal lungo assolo “slide” della chitarra di Gilmour. Da ricordare anche
“Fearless”, brano più quieto, caratterizzato da un coro dei tifosi del
Liverpool nel finale.

Nel maggio 1971 viene pubblicato anche Relics,
raccolta contenente diversi singoli mai apparsi su Lp, risalenti al
periodo-Barrett, ma anche alcune perle del “primo” Waters edite solo su
45 giri, come la splendida ballata acustica di “Julia Dream”.

Successivamente,
i quattro decidono di registrare, con la direzione di Adrian Maben, un
concerto senza pubblico tra le rovine di Pompei: il risultato è
eccezionale, il complesso suona in maniera efficace vecchi e nuovi
successi in uno scenario straordinariamente suggestivo. Il film Live At Pompei (1972)
di Adrian Maben è una efficace e suggestiva testimonianza della
straordinaria portata emotiva e visuale della musica dei Pink Floyd di
questo periodo.

Nel ’72 si presenta ai Pink Floyd la
possibilità di confrontarsi nuovamente con l’esperienza delle colone
sonore: è ancora una volta Barbet Schroeder a commissionare la musica
per il suo nuovo film, “La Vallée”. Stavolta l’operazione si rivela un
fallimento soprattutto per colpa del film, giudicato dalla critica come
opera sciatta e inconcludente.

L’album che ne deriva, Obscured By Clouds,
smontato dai critici, va ricordato soprattutto per le atmosfere
marcatamente rock, per la maturità dei testi di Waters e per alcuni
pezzi orecchiabili come “Free Four” e “Childhood End”.

Nello
stesso periodo, il complesso lavora allo sviluppo di una suite
concettuale sull’alienazione umana, il cui titolo provvisorio è
“Eclipsed – A Piece For Assorted Lunatics”. La suite viene “rodata” dal
vivo per lungo tempo, prima di essere elaborata in studio con
l’inserimento di effetti particolari, grazie all’aiuto del tecnico del
suono Alan Parsons. Ne scaturisce uno dei grandi kolossal della band, The Dark Side Of The Moon.

Superbo
saggio di produzione audio-fonica, forte di contenuti testuali ad
effetto (con riferimenti alla natura effimera della vita, al denaro,
all’incomunicabilità e alla follia) il disco presenta tuttavia alcuni
passaggi a vuoto, a cominciare dall’insipida “Money” (con il celebre
sassofono di Dick Parry), per poi passare attraverso i trucchi
(talvolta ruffiani) di “Speak to Me” e “On the Run”, perfette comunque
nel rendere lo stato di ansia del protagonista, riuscendo a fondere,
tra rumori e soluzioni sonore d’avanguardia, momenti di alto contenuto
sonico-spaziale, ponendo le coordinate su cui si poggia il pensiero
pessimista di un Waters alquanto disorientato, autentico ambasciatore
di quel tema dell’incomunicabilità di cui “The Dark Side” risulta un
drammatico spaccato. Non mancano, però, momenti di intenso lirismo,
come dimostra “Time”, trascinante nella sua felicissima fusione tra
testo e musica, con un debordante assolo di Gilmour alla chitarra. La
prima parte del disco si completa con una elegia alla pazzia, ma anche,
allo stesso tempo, alla libertà dell’uomo, schiavo di una società che
tende a opprimerlo: “The Great Gig in the Sky”, dominata dai vocalizzi
di derivazione soul-gospel di Clare Torry, in grado di fondere
fiammante liricità e drammaturgia quasi cinematografica. “Us and Them”
vorrebbe rievocare “Breathe In the Air”, ma la melodia, sebbene
pink-floydiana al 100%, risulta convincente solo se inserita nel
contesto dell’album. Un discorso che vale un po’ per tutto “The Dark
Side of the Moon”: ciò che rende immortale quest’opera è il suo
inconsueto approccio con l’art-system dell’epoca, qui fotografato in
tutte le sue direzioni possibili. Per il rock si trattò di un
prodigioso balzo verso un’era futuristica prossima a venire, mentre per
quel che concerneva il song-writing i Pink Floyd hanno certamente
scritto pagine di più elevata caratura artistica.

Il risultato è comunque eclatante, davanti al gruppo si spalancano le porte del successo mondiale:The Dark Side Of The Moon
rimane in classifica per lunghissimo tempo, divenendo uno dei maggiori
successi commerciali di sempre. Tanto in Europa quanto in America,
schiere di nuovi fan si raccolgono attorno al fenomeno Pink Floyd,
lasciando anche una pesante incognita sul seguito da dare a un lavoro
così fortunato. E’ da questo disco in poi che Waters (autore di tutti i
testi) assume sempre di più i gradi di leader della formazione.

Per
oltre un anno i quattro rimangono inattivi dal punto di vista
compositivo, per poi ritrovarsi in studio nel ’74 con la sola certezza
di “Shine on You Crazy Diamond”, anche questo un brano piuttosto lungo,
formato dai contributi dei quattro musicisti e guidato dagli assoli
alla chitarra di Gilmour.

In un primo momento si pensa di
riservare la prima facciata alla suite e la seconda a due brani:
“Raving and Drooling” e “You Gotta Be Crazy”. La lunga “gestazione” di Wish You Were Here
suggerisce però ai Pink Floyd di intraprendere una strada diversa,
trasferendo sul disco la sensazione di apatia e meccanicità che
aleggiava su di loro: vengono scartati i due brani riservati alla
seconda facciata, sostituti con nuove composizioni come la title-track
(destinata a diventare una delle canzoni più famose della loro
produzione), “Welcome To The Machine” e “Have A Cigar” (con alla voce
Roy Harper), zeppe di accenni alla macchina tritatutto dello
show-business. “Shine On You Crazy Diamond”, invece, viene divisa in
due parti, che aprono e chiudono il disco. Ne viene fuori un concept
album sulla purezza e l’innocenza ormai perdute, con riferimenti
neanche troppo velati a Syd Barrett, che si dice si fosse intrufolato,
per un’ultima volta, negli studi durante le registrazioni. Musicalmente
parlando, l’album è una gradevole prova stilistica, anche se si nota,
rispetto agli album precedenti, la mancanza di quegli spunti innovativi
che avevano sempre caratterizzato la produzione del gruppo inglese.

Per
rivedere i Pink Floyd in studio bisogna aspettare il 1977, anno in cui
i quattro decidono di raccogliere in un disco il materiale scartato
dall’album precedente. Il nuovo lavoro nasce così dall’adattamento
musicale e testuale di vecchi pezzi scartati come “You Gotta Be Crazy”
e “Raving and Drooling”, secondo un nuovo filo conduttore: il
riferimento al mondo animale. I due pezzi diventano rispettivamente
“Dogs” e “Sheep” e insieme alla nuova “Pigs (three different ones)” e
alle brevi parentesi iniziale e finale di “Pigs On The Wing”, vanno a
costituire Animals, un’invettiva contro alcune figure
della società (con i testi di Waters “cattivi” come non mai),
orwellianamente sostituite dalle specie animali. Dal punto di vista
tecnico, degna di nota è la trascinante costruzione ritmica, con tutti
gli strumenti sempre in perfetta armonia, quasi fusi tra di loro a
generare un unico suono, senza mai ricorrere a virtuosismi fini a se
stessi.

Dopo la pubblicazione diAnimals, i
Pink Floyd partono per un lungo e massacrante tour mondiale. Sarà in
questa occasione che Waters, anche a causa di spiacevoli episodi, che
lo vedranno protagonista perfino di screzi col pubblico, comincerà a
sviluppare l’idea che porterà i quattro alla costruzione del loro
ultimo capolavoro: The Wall.

L’album,
ispirato a quella sorta di “muro” di incomunicabilità che si era venuto
a creare tra il complesso e il pubblico (un muro che col passare del
tempo si arricchirà nella testa di Waters di tanti mattoni fino a farlo
diventare un emblema dell’alienazione e dell’estraniazione dal mondo a
tutto raggio) è sviluppato su due dischi e abbraccia diverse tematiche
come discriminazioni, istruzione, show-business, fascismo e
implicazioni autobiografiche di Waters, sempre più “padre padrone” del
gruppo (durante le registrazioni nascono forti contrasti con Gilmour e,
al termine della gestazione dell’album, Wright viene allontanato). Per
gli arrangiamenti la band fa nuovamente ricorso a effetti eclatanti e
addirittura a parti orchestrali, grazie all’aiuto esterno di Michael
Kamen. Pur vantando alcuni pezzi eccezionali come “Another Brick in the
Wall, part 2”, “Hey You”, “Is There Anybody Out There?” e “Comfortably
Numb” (con il memorabile assolo di chitarra di Gilmour), il disco è
essenzialmente un’opera unica: nessun brano è slegato dal precedente e
tutti sono funzionali allo svolgimento della storia che ha nella
rockstar Pink (che talvolta ricorda la figura di Barrett, mentre in
altri momenti è l’alter ego dello stesso Waters) il frustrato
protagonista. “Another Brick in the Wall, part 2”, in particolare, si
rivelerà uno dei più grandi hit della band: preannunciata dall’arrivo
degli elicotteri, è una canzone di una semplicità disarmante, costruita
su un solo accordo ma impreziosita dall’ennesimo solo di chitarra di
Gilmour e da un coro dei bambini, composto da 23 ragazzi della
Islington Green School di Londra, di età compresa fra i 13 e i 15 anni.
Il celebre verso del ritornello (“non abbiamo bisogno di istruzione,
non abbiamo bisogno di controllo del pensiero”) sarà utilizzato dai
manifestanti neri in occasione dell’anniversario della sommossa di
Soweto repressa nel sangue: il governo razzista del Sud Africa proibirà
la diffusione del brano e ne ritirerà tutte le copie dai negozi. Pur
permeato da una visione cupa e pessimistica della vita, il disco si
conclude comunque con il “crollo” del muro e con il messaggio di
speranza di “Outside the Wall”.

L’album sarà premiato dal
successo di vendite (clamoroso per un’opera su doppia distanza) e si
presterà a una difficile quanto magnifica rappresentazione dal vivo:
gli spettacoli saranno pochissimi ma memorabili, con il muro costruito
a poco a poco sul palco, enormi pupazzi gonfiabili e coinvolgenti
proiezioni.Da The Wall sarà tratto anche il film omonimo, con la regia di Alan Parker e Bob Geldof nel ruolo del protagonista Pink.

Il
complesso esce però dall’esperienza alquanto provato: i dissidi tra le
due anime del gruppo (Waters e Gilmour) appaiono difficilmente sanabili
e Wright, come detto, viene allontanato.

I quattro decidono
comunque di tornare in studio per registrare un album che, negli
intenti, dovrà raccogliere il materiale scartato dal precedente lavoro.

La guerra per le isole Falkland-Malvine, però, fa scattare una
scintilla nella mente di Waters, che decide di comporre nuovo materiale
con un comune denominatore nella mancata realizzazione del sogno di
pace postbellico.

L’album che ne viene fuori, The Final Cut,
è in pratica una creatura del solo Waters, con gli altri membri
relegati al ruolo di musicisti (e spesso neanche a quello). Di tutti
gli album dei Pink Floyd è il meno coinvolgente, anche se la bellezza
di alcuni brani (su tutti “The Gunners Dream” e “The Post-War Dream”)
rimane inattaccabile.
Purtroppo il titolo del disco si rivela molto presto profetico, costituendo l’atto finale di Waters come membro della band.
La
volontà del bassista di sciogliere i Pink Floyd porterà a una lunga
querelle con strascichi giudiziari per l’utilizzo di un marchio ormai
sinonimo di best-seller, che vedrà Gilmour e Mason avere la meglio.

Il chitarrista, con l’aiuto di illustri musicisti e il modesto supporto di un Mason quantomeno svogliato, pubblicherà nel 1987 A Momentary Lapse Of Reason, mentre nel 1994, con il rientro a pieno titolo di Wright e Mason nelle vesti di compositori ed esecutori, uscirà The Division Bell.
I dischi, colmi di spunti tutt’altro che innovativi, seguiti dalle rispettive testimonianze live, Delicate Sound Of Thunder (1988) e Pulse
(1995), se non altro ci consegnano dei musicisti tirati a lucido e
sempre pronti a emozionare il pubblico, con concerti dagli apparati
scenici mastodontici (da ricordare il famoso episodio di Venezia) e
notevoli esecuzioni del glorioso repertorio.

Più recente è la pubblicazione di furbe operazioni commerciali come The Wall Live
e un improbabile “Best of”, che se non altro hanno l’intento di
attirare nuove schiere di appassionati verso il mito senza tempo dei
Pink Floyd.
pf109

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